«Mamma del Carmine non ci abbandonar, noi siamo tuoi devoti e ti vogliamo sempre amar », recita il canto popolare sanciprianese intonato in occasione della “Festa del Carmine”: una preghiera per le anime che il ‘privilegio sabatino’ credeva liberate dalle fiamme del Purgatorio, per intercessione della Vergine «bruna », ogni
primo sabato dopo la loro morte. «Prendi, o figlio dilettissimo, questo scapolare del tuo ordine, segno distintivo della mia confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli,di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi
morrà vestito di questo abito non soffrirà il fuoco eterno», rivelò la Vergine, apparsa a Simeone Stock il 16 Luglio del 1251. Il culto della Vergine del Carmine si attesta a San Cipriano Picentino intorno alla seconda metà del XVIII secolo, quando nella tribuna della Chiesa di San Cipriano Vescovo compare la bella tela della Madonna del Carmelo che mostra lo scapolare ad Elia e a San Simone Stock . La scena, dipinta da Michele Ricciardi tra il 1740 ed il 1748, sintetizza gli elementi principali del culto carmelitano: la Vergine appare ai due Santi che, attraverso lo scapolare,
intercedono per salvare le anime dei fedeli dal demonio e dall’inferno. La presenza di questa immagine nella Chiesa Madre di San Cipriano Picentino indica un probabile margine temporale della diffusione del culto della Vergine
del Carmine nel Picentino – chiaramente distinto da quelli più antichi e similari della Madonna delle Grazie, della Vergine del Rosario e di quella degli Angeli – che si manifestò praticamente attraverso la produzione di statue in legno e panno e, più raramente, con opere pittoriche. Nelle chiese del luogo ed in generale in quelle della zona, sono attestati e documentati fino al XVIII secolo solo altari o Confraternite legate alla quattrocentesca iconografia della Madonna delle Grazie o delle Anime Purganti, dispensatrice di abbondanza ma anche sollievo per i defunti, attraverso il latte, inteso quale ‘refrigerium’, che sgorga dalle mammelle premute dal Bambino Gesù. Dopo la Battaglia di Lepanto (1571) cominciò a diffondersi maggiormente l’immagine del Rosario, mentre il culto gesuitico provvide a promuovere l’immagine della Madonna quale Vergine degli Angeli e del Paradiso. La
mediazione della “Madonna bruna”, con la nuova e prorompente testimonianza della spagnola Teresa Di Avila (canonizzata nel 1622), diversamente, accorciava la permanenza delle anime in Purgatorio e permetteva di liberarne i defunti dalle fiamme ogni sabato successivo alla loro morte. Gli strumenti della salvazione non erano più il latte, la Corona del Santo Rosario o il Bambino Gesù, come ricordava la dottrina e l’iconografia ufficiale rinascimentale e posttridentina, ma la preghiera e lo scapolare; l’una esercitata quotidianamente e l’altro portato sempre addosso. Nei luoghi di culto della Valle del Picentino questo passaggio è ben rappresentato dalla presenza di soli repertori statuari della Vergine del Carmine e di raffigurazioni in maiolica (databili tra il XVIII ed il XIX secolo) mentre in precedenza sono frequenti altari, cappelle gentilizie, chiese e cicli pittorici con soggetti che riguardano la Vergine delle Grazie o quella del Rosario, come a Castiglione del Genovesi, nel territorio di San Cipriano Picentino, in quello dell’antico ‘Stato di Giffoni’ o a Montecorvino Rovella ed Acerno. Nella Chiesa di San Cipriano Vescovo infatti, dove esisteva talaltro il culto della Vergine delle Grazie e quello di Maria Santissima del Rosario, la Vergine del Carmine
appare dalla seconda metà del Settecento. In questa chiesa vi erano anche la Confraternita del Santissimo Rosario e San Giuseppe e quella del Monte dei Morti. Entrambe coltivavano la preghiera attraverso il rosario ed il culto della
buona morte, invocando il patrono San Giuseppe e praticando la celebrazione di riti (come il “settenario dei morti” a Novembre) per il suffragio delle anime dei defunti. A Sovvieco, invece, nel Comune di Giffoni Valle Piana, vi è la credenza che la Vergine del Carmine, vestita dalle donne e portata in processione dagli uomini del paese si ‘faccia rossa’, ovvero le guance dellastatua si arrossano sempre più mentre avanza in processione. Nel 1855 la «divozione» popolare alla Vergine del Carmine non mancò di manifestarsi anche attraverso l’edicola votiva installata
sul prospetto di Casa Noschese in Via Francesco Spirito, a pochi passi dalla Chiesa Madre e dalla piazza maggiore del paese. Si tratta di una maiolica cui modello di riferimento è la Maria Santissima del Carmine, detta la bruna, venerata nella Chiesa del Carmine Maggiore di Napoli, incoronata dal Capitolo vaticano nel 1877. L’immagine è accompagnata dal motto: «chi passa per questa strata che si adora a questa Maria del Carmine a divozione di Pasquale Naddeo del fu Cesero A.D. 1855». Ma il 6 Maggio del 1895 gli animi dei sanciprianesi furono scossi da un evento miracoloso: il giovane Giuseppe Cioffi (1863 –1948) dopo incessanti sogni premonitori, ritrovò tra i ruderi delle fabbriche di una masseria “nel fondo Corte”, in località Mandrizzo, “una statuetta che non si distingueva di che cosa sia ed è l’immagine di Maria SS.ma del Carmine” (i ruderi di questa masseria sono ancora individuabili sulla strada che da Pezzano conduce al Capoluogo, all’altezza della curva detta, appunto, “della madonnella”). Il fatto viene raccontato per la prima volta in una lettera che lo stesso Giuseppe indirizzò ai proprietari del terreno l’8 Maggio 1895, dopo che la notizia si era sparsa in paeseed in tutte nelle contrade vicine, tanto da alimentare
folle di curiosi, devoti ed anche l’interessamento, non solo del Clero locale, ma anche della Curia salernitana Il contadino racconta di aver sognato più volte “una donna” la quale gli aveva detto di recarsi presso le case
cadute nel fondo Corte e di prendere una “cosa”. La prima volta, essendo ammalato, incaricò sua moglie, Rosa De Stefano, che però non eseguì quanto disposto. La seconda volta, dopo il ripetersi del sogno e l’insistenza del
marito, tornò a casa dicendo di aver ispezionato il fondo ma di non aver trovato nulla. La terza volta fu lui stesso ad andare e, così, rinvenne quanto aveva sognato: una scultura, una “statuetta che non si distingue di che cosa sia ed è
l’immagine della Madonna del Carmine” (della statuetta rinvenuta non si conoscono le fattezze, se non che era di ceramica, poiché rubata in assenza di documenti fotografici) . Sul luogo, posto nei pressi di una curva della strada che da San Cipriano scende alla frazione di Pezzano, fu costruita una piccola edicola in muratura entro cui venne conservata l’immagine. Si trattò di una costruzione semplice: un muro a capanna intonacato, aperto al centro da una nicchia archivoltata che, con il passare del tempo deperì a tal punto da richiedere un restauro. Si pensò bene di costruire una chiesetta per la celebrazione dei riti religiosi considerata anche la copiosa affluenza di pellegrini e per “poter custodire tutto quanto portavano con loro cioè grosse quantità di oggetti preziosi…”. All’uopo fu costituito
un comitato civico: “I sottoscritti componenti della commissione per l’erezione di una chiesetta, in sostituzione di quella cadente, dedicata alla Vergine Santissima del Monte Carmelo, sita in questa contrada Mandrizzo, col giorno 16
Luglio p.v. inaugureranno detto tempietto, con funzioni civili e religiose”. Apprendiamo da questo documento che il 16 Luglio del 1931 si celebrò la consacrazione della nuova cappella dedicata alla Vergine del Carmine: una struttura
semplice, nata dal pensiero e dalle braccia dei fedeli che – come ancora si racconta – al richiamo della campana della Chiesa Madre, si recavano sul posto a lavorare per portare avanti la fabbrica. Sul fondo dell’aula unica terminante con l’abside semicircolare, dietro il semplice altare in muratura fu collocato un tempietto ligneo destinato a contenere la scultura della Madonna (rubata nel 1975). La costruzione venne portata avanti da un comitato cittadino,
rappresentato da Ernesto Marotta, Generoso Plaitano, Paolo Palmieri, Angelo Elia, Roberto e Giuseppe Cioffi. I lavori dovevano chiudersi entro il 16 Luglio del 1930 ma una comunicazione della “commissione” evidenzia la mancanza di sovvenzioni: “le speranze fondate sui nostri compaesani residenti nelle Americhe hanno completamente fallite”, scriveva Marotta al Podestà dell’epoca, invocandolo ad intervenire per porre fine ai lavori. La chiesetta sorse in piena campagna, lontano dall’abitato di San Cipriano, nel luogo dove ancora l’attuale toponomastica ricorda l’esistenza di un «mandrizzo», ossia di un ricovero prevalentemente invernale per le greggi. Essa, infatti, si affaccia sulla curva dell’antica «traversa rotabile» che dava accesso al guado del torrente “Tovernese” ed apriva la
strada a pastori ed allevatori verso le terre demaniali della “Visciglieta” dove erano gli “usi civici” per il pascolo ed il foraggio degli animali. Contestualmente alla cerimonia religiosa, il comitato richiese l’autorizzazione ad istituire per quel giorno e per tutti gli anni successivi «una fiera di animali, onde venire in aiuto del piccolo commercio locale». Il 30 Maggio 1931, il Commissario Prefettizio Cav. Uff. Ten.Col. Enrico Chiari, vista l’istanza dei cittadini, visto il parere favorevole della Prefettura, delibera «isitutire una fiera da tenersi nel 16 Luglio di ogni anno in contrada Mandrizzo di questo capoluogo di San Cipriano Picentino». La «Fiera del Carmine» fu indetta per il 16 Luglio
di ogni anno, dopo quella di San Vito a Capitignano (15 Giugno) e dopo quella di San Giovanni (24 Giugno) che, tra le altre, compare già in una nota del 29 Maggio del 1907 come “fiera di bestiame” (si vendevano bovini e suini) istituita per un solo giorno, fino alle 12.00. La fiera del 16 Luglio era anch’essa un mercato di bovini e suini, ricordata come tale nei documenti fino al 1968. Tutta la vicenda è raccontata in un libretto anonimo dal titolo “Rinvenimento della Madonna e la Costruzione della nuova chiesetta”, databile tra il 1928 ed il 1931, conservato nell’Archivio parrocchiale di San Cipriano che chi scrive ha trascritto, pubblicato ed annotato in un piccolo libretto edito dal Comune di San Cipriano Picentino, in occasione dell’inaugurazione della cappellina svoltasi il 16 Luglio 2007 a seguito dei lavori di restauro (la cappella è stata restaurata dal Comune di San Cipriano Picentino coi i Fondi POR Campania 2000-2006 P.I. – Parco Regionale dei Monti Picentino – Misura 1.9). In quell’occasione fu sottolineata l’eccezionalità della vicenda sanciprianese, che con tanta dovizia di particolari veniva raccontata in quel libretto, tanto da non essere necessaria nessuna ricostruzione storica ma, come avvenne, una sua trascrizione integrale,
per offrirlo alla lettura di fedeli e curiosi, nella sua semplicità ed efficacia. Grazie alla Famiglia Milella, inoltre, ereditaria della Casa colonica oggetto del miracolo e di tutto il terreno intorno, abbiamo potuto ricomporre gran parte della documentazione ancora esistente che integra il “racconto” con una serie di importanti testimonianze: la “lettera autografa” di Giuseppe Cioffi datata 1895, le “Disposizioni per la Costruzione della Cappella” del 1928. Con
quest’ultimo documento la Famiglia dei Milella, residente a Napoli, disponeva la cessione del terreno per la costruzione della cappella, come atto di pura devozione e liberalità, disciplinandone d’intesa con l’autorità ecclesiastica locale, la cura e la custodia e riservando per se e per gli eredi il “favore spirituale di una giornata di preghiera” settimanale (nell’anno 2000 inoltre, gli eredi Milella hanno donato al Comune i restanti trentamila ettari di terreno che formano, oggi il Parco comunale detto “della Madonnella”). Ricordo da ragazzino che questa storia ogni anno veniva raccontata all’ombra del tiglio, davanti alla cappellina, dall’amorevole figura femminile,
la Signora Concetta che per discendenza curava la buona tenuta della cappella, assicurandone la pulizia, l’ordine, la celebrazione annuale delle Sante Messe e, con il suo racconto, contribuiva a manteneva viva la memoria dell’evento miracoloso.